VIOLENZA DONNE: COMMISSIONE INCHIESTA SENATO, IN AMBITO GIUDIZIARIO SERVE MOLTA PIU’ FORMAZIONE PER RICONOSCERLA, PUNIRLA E PREVENIRE ESCALATION

In ambito giudiziario, nelle procure, nei tribunali, nei tribunali di sorveglianza e tra magistrati, avvocati, psicologi serve molta più formazione e quindi specializzazione per riconoscere e affrontare con efficacia la violenza contro le donne, sanzionarla, prevenire escalation, sostenere le donne che denunciano. Molto è stato fatto e alcuni tribunali presentano best practice da diffondere, ma la Convenzione di Istanbul, che prescrive di rendere concreti il diritto delle vittime alla protezione, resta in larga parte ancora disattesa. Le consulenze tecniche d’ufficio, che spesso decidono sulle capacità genitoriali, vengono affidate anche a esperti non specializzati nella violenza di genere. Né viene riconosciuta la violenza domestica alla base di separazioni e divorzi, perché i procedimenti civili e quelli penali per maltrattamenti e violenza procedono la maggior parte delle volte in parallelo, senza alcuno scambio di informazioni. 

Sono queste le principali conclusioni del “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria”, approvato il 17 giugno dalla Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio e la violenza di genere, che verrà presentato il 16 luglio nel corso del convegno “Giustizia e violenza contro le donne: riconoscere per perseguire”, presso la Sala Zuccari del Senato. 

L’indagine è stata svolta tra dicembre 2019 e il 2020 somministrando, attraverso un’applicazione informatica, appositi questionari a procure, tribunali ordinari, tribunali di sorveglianza, Consiglio superiore della magistratura, Scuola superiore della magistratura, Consiglio nazionale forense e ordini degli psicologi, focalizzando l’attenzione sul triennio 2016-2018. Tutta la ricerca si proponeva di comprendere quanto e come la “filiera” della giustizia percepisse la violenza contro le donne e riuscisse a riconoscerla e quanto fossero diffuse specializzazione e formazione. Come viene percepita la violenza contro le donne in ambito giudiziario e quindi nelle procure, nei tribunali, tra magistrati, avvocati, psicologi? Quanto è diffusa la specializzazione tra magistrati, avvocati, psicologi? Le varie istituzioni coinvolte a vario titolo nella repressione dialogano tra loro? Le cause civili per separazione e quelle penali contro gli uomini maltrattanti sono collegate o separate? I consulenti di parte sono specializzati? Come si presenta la situazione sul territorio nazionale? Sono queste le domande di partenza a cui l’indagine ha cercato di dare risposta.

Procure, tribunali, tribunali di sorveglianza

Le procure

Le procure sono gli uffici più direttamente coinvolti nell’azione di contrasto alla violenza di genere e domestica, per le funzioni inquirenti e perché insieme alla polizia giudiziaria assicurano l’immediato intervento dello Stato quando vengono commessi i reati. La ricerca ha indagato la specializzazione dei pubblici ministeri sulla violenza di genere e l’organizzazione degli uffici. Hanno risposto al questionario 138 procure sul 140 ed è emerso un quadro variegato. Su un totale di 2045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare, nel 2018, la materia specializzata della violenza di genere e domestica è pari a 455, il 22 per cento del totale. Tuttavia non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto di violenza contro le donne e, viceversa, non sempre i procedimenti sulla violenza vengono affidati a magistrati specializzati. Nel 10,1 per cento delle procure, di piccole dimensioni, non esistono magistrati specializzati, nel 77,5 per cento è stato costituito un pool specializzato che però tratta anche altro rispetto a “soggetti deboli e vulnerabili”, mentre solo una minoranza di procure pari al 12,3 per cento segnala l’esistenza di un gruppo di magistrati specializzati esclusivamente dedicati.

Nel 90 per cento delle procure esistono dunque magistrati specializzati, ma i provvedimenti per violenza non vengono per forza affidati a loro. Nel complesso, solo nel 12 per cento delle procure emerge attenzione ai temi della violenza e un elevato livello di consapevolezza. In conclusione, su un ampio numero di uffici occorre investire risorse, sia di personale che di mezzi, per consentire alle procure di raggiungere migliori standard operativi, così che possano assumere un importante ruolo propulsivo per gli altri uffici giudiziari, con effetti anche nei successivi gradi di giudizio. In questo contesto è decisivo interrogarsi se le disposizioni della Convenzione di Istanbul che richiedono la specializzazione di tutti gli operatori, e quindi anche dei magistrati, siano compatibili con la norma vigente che, nel nostro ordinamento, vieta ai magistrati di rimanere in servizio nello stesso gruppo di lavoro per più di 10 anni.

I tribunali ordinari

Uno dei temi centrali della Convenzione di Istanbul è quello della cooperazione interistituzionale, tanto che vi è l’espresso incoraggiamento alla formazione degli operatori. Attraverso i questionari ci si è concentrati sulla verifica di quanto la violenza nelle relazioni famigliari emerga nelle cause civili, con una particolare attenzione ai consulenti tecnici d’ufficio (Ctu). La violenza sia fisica che psicologica, infatti, pone in stretta correlazione le cause civili per separazione e divorzio con i procedimenti penali. Quanto pesa il ruolo del pm nelle cause civili di separazione e in quelle riguardanti i minorenni, visto che è chiamato a garantire l’effettività della protezione di tutti gli interessi in gioco e in particolare dei bambini e delle bambine che assistono alla violenza? Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale invisibilità della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, in cui la situazione appare più arretrata rispetto alle procure. 

La rilevazione si è riferita al triennio 2016-2018 e hanno risposto 130 tribunali su 140. Nel 95 per cento dei tribunali non vengono quantificati casi di violenza domestica emersi nei casi di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili di matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate le cause in cui il giudice dispone una Ctu nella materia. Ciò attesta una sostanziale sottovalutazione della violenza contro le donne. 

Il 95 per cento dei tribunali non è in grado di indicare in quante cause il giudice abbia disposto una consulenza tecnica d’ufficio, che viene utilizzata soprattutto per l’accertamento delle capacità genitoriali e accertamenti di natura psicologica. Il 95,5 per cento dei tribunali ha dichiarato di non riuscire  a nominare consulenti tecnici di ufficio che possiedono una specializzazione in materia di violenza di genere. 

Criticità si riscontrano anche riguardo al rapporto tra penale e civile, tant’è che soltanto nel 31,5 per cento dei tribunali vengono sempre acquisiti atti e provvedimenti del procedimento penale che riguarda le stesse parti della causa civile nei casi di violenza domestica. La partecipazione del pm nelle cause civili in cui emerge violenza domestica anche con coinvolgimento di minori sembra occasionale e non adeguata. Solo nei tribunali di Benevento, Bologna, Enna, Macerata, Palermo e Roma sono state adottate linee guida, protocolli e accordi per la collaborazione tra varie istituzioni nei procedimenti per violenza. 

I tribunali di sorveglianza

I tribunali di sorveglianza sono gli uffici che sovrintendono all’esecuzione penale e che, per esempio, concedono i benefici ai condannati, dal permesso premio alla semilibertà: è chiaro che l’adozione di queste misure alternative al carcere, nei casi di violenza domestica, non possono prescindere dal fondato accertamento di non mettere a rischio le donne e i figli offesi dal reato. Soltanto in un numero limitatissimo di tribunali di sorveglianza si è rilevata la buona prassi di coinvolgere anche le vittime nell’istruttoria finalizzata alla concessione dei benefici penitenziari: il 26 per cento dei tribunali di sorveglianza non acquisisce mai notizie e informazioni sulle persone offese, il 63 per cento riferisce che non sempre è possibile e solo l’11 per cento dichiara di acquisire sempre informazioni. Esistono poi buone pratiche. Alcuni tribunali “verificano i rapporti con la vittima anche successivi alla condanna” (Torino); “valutano anche il contesto familiare e sociale nel quale il condannato dovrebbe rientrare” (Roma); “ascoltano anche il congiunto (coniuge) ove la difesa del condannato asserisca il completo superamento della conflittualità familiare” (Trento); “valutano le risultanze circa i rapporti con la vittima” (Brescia); “valutano l’attuale rapporto con al vittima del reato e anche il luogo in cui abita la vittima stessa” (Genova). Per quanto riguarda la recidiva, solo il 26 dei tribunali ha eseguito misure di sicurezza personale finalizzate a tutelare le vittime minori di abusi sessuali.

La formazione degli operatori

La formazione degli operatori è un tema centrale della Convenzione di Istanbul. Riguardo alla magistratura appare piuttosto carente: nel triennio 2016-2018 la Scuola superiore della magistratura ha organizzato solo 6 corsi di aggiornamento in materia di violenza di genere, frequentati nel 67 per cento dei casi da donne. I corsi riguardavano soprattutto il settore civile delle separazioni, dei divorzi e dei provvedimenti riguardanti i figli. 

A livello distrettuale, nello stesso periodo, sono stati organizzate 25 iniziative di formazione, che hanno visto il coinvolgimento di circa il 13 per cento dei magistrati, contro il 5% dei frequentanti quelle della Scuola superiore della magistratura. 

Per quanto riguarda gli avvocati, dai dati comunicati dal Consiglio nazionale forense, dal 2016 al 2018 sono stati organizzati più di 100 eventi in materia di violenza di genere e domestica, ai quali hanno partecipato oltre 1000 avvocati (su un totale di 243 mila), di cui l’80 per cento donne. In tre anni, dunque, solo lo 0,4 per cento degli avvocati ha partecipato a eventi formativi in materia di violenza di genere e domestica. Anche per gli psicologi si deve prendere atto di una generalizzata carenza  di sensibilità alla formazione  e alla costituzione di gruppi di lavoro specifici per consentire agli psicologi che svolgono attività di consulenza e di perizia nel processo sia civile che penale di acquisire anche una formazione specifica forense.

I risultati dell’indagine: best practice, criticità e prospettive di riforma 

La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere nella cornice sovranazionale dei principi della Convenzione di Istanbul – più volte ricordati – ha ritenuto importante verificare quanto il nostro Paese abbia aderito agli impegni rivolti agli stati firmatari (articolo 4) ad “adottare le misure legislative e di altro tipo necessarie per promuovere e tutelare il diritto di tutti gli individui, e segnatamente delle donne, di vivere libere dalla violenza, sia nella vita pubblica che privata”, ed anche (articolo 5) ad essere diligenti nel “prevenire, indagare, punire i responsabili”.

È proprio con riguardo a questo obbligo di “diligenza” nell’attività preventiva e repressiva che la Commissione non poteva non considerare l’importante monito dei Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – nella sentenza “Talpis c. Italia” del 2 marzo 2017- ad operare affinché i meccanismi di protezione previsti nel diritto interno funzionino in pratica e non solo in teoria, e che soprattutto nelle cause in materia di violenza domestica i diritti dell’aggressore non possano prevalere sui diritti alla vita ed alla integrità fisica e psichica delle vittime.

In un contesto così delineato, e nel difficile percorso intrapreso dal nostro Paese di adeguamento alla normativa convenzionale, la Commissione ha focalizzato alcuni aspetti più qualificanti, quali: la specializzazione degli operatori, ed in particolare dei magistrati, degli avvocati e degli psicologi nonché le formule organizzative adottate e ritenute idonee a garantire immediatezza ed efficacia all’intervento giudiziario.

Ne è emersa una realtà multiforme ed allo stesso tempo complessa. 

Il contesto nel quale operano gli uffici giudiziari è obiettivamente difficile, segno – anche ma non solo – di mancanza di investimenti che hanno determinato gravi carenze anche strutturali, soprattutto di personale e mezzi che ne hanno significativamente condizionato l’efficienza. 

È parsa anche scarsa la consapevolezza, in chi opera nel settore, della necessità di adeguare i propri standard operativi alle mutate esigenze, nonché della esigenza di una effettiva cooperazione e collaborazione inter istituzionale, presupposti ineludibili perché il contrasto alla violenza domestica e di genere sia effettivo ed efficace.

È doveroso sottolineare che, accanto a indubbi aspetti critici, si registrano importanti progressi nel percorso indicato, come attesta lo sforzo compiuto da una parte – purtroppo ancora minoritaria – della magistratura, più evidente per quella inquirente, la quale interpreta il proprio ruolo con modalità organizzative più aderenti alle mutate esigenze investigative. Tutto ciò avviene – comunque – in un quadro complessivo di evidenti difficoltà e resistenze, anche di natura culturale. 

Non ci si può certo ritenere soddisfatti della realtà così come rappresentata dalle indagini condotte, ma è anche innegabile che sia in atto un grande sforzo messo in campo da alcuni uffici giudiziari più virtuosi che possono – auspicabilmente – essere trainanti per tutti gli altri, purché sostenuti anche da adeguate iniziative di tipo organizzativo, e supportati nel percorso di formazione e specializzazione di chi ha il compito di assicurare in tutto il territorio nazionale uniformità e coerenza dell’azione giudiziaria. 

Occorre anche sottolineare la mancanza di consapevolezza della esigenza –ineludibile – di attuare forme di collaborazione e cooperazione tra tutti gli organi e le figure istituzionali coinvolte, sempre in una prospettiva comune: combattere la violenza, soprattutto in ambito domestico. 

Non vi è dubbio che le maggiori criticità siano state rilevate per quanto riguarda la formazione specifica sui temi della violenza di genere e domestica nell’ambito dell’attività forense ed in quella dei consulenti tecnici, psicologi in particolare: ciascuno nel proprio ambito e nell’esercizio delle proprie competenze ha evidenziato mancanza di attenzione e di sensibilità per il tema della violenza di genere e domestica, soprattutto nella formazione e nell’aggiornamento professionale. Sia gli avvocati che gli psicologi hanno soltanto avviato un percorso di sensibilizzazione alle tematiche indicate e sono in grave ritardo nella specializzazione dei professionisti.

L’esito delle indagini svolte segnala, perciò, una sostanziale difficoltà, anche di tipo culturale, nella conoscenza del fenomeno. Ciò comporta – da parte di tutto il sistema – una sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non viene “letta” correttamente.  Per queste ragioni può affermarsi che vi è ancora molto da fare perché si possa ritenere che il nostro “sistema Paese” sia davvero democratico in quanto garantisce alle donne di essere libere da ogni forma di violenza.

Se è vero che la fotografia della realtà giudiziaria che emerge dai dati dei questionari segnala che il percorso di adeguamento ai principi della Convenzione di Istanbul appare solo avviato, sono anche molteplici le buone prassi e le collaborazioni interistituzionali che hanno consentito un decisivo passo in avanti nella tutela delle donne vittime di violenza di genere.

Il legislatore, pertanto, in costante raccordo con tutte le istituzioni e gli ordini professionali coinvolti, ha il dovere di rafforzare e mettere “a sistema” i modelli positivi emersi, come pure di implementare le misure normative già vigenti al fine di garantire a tutti i soggetti coinvolti l’accesso agli strumenti processuali e la formazione necessaria per una corretta lettura ed un efficace e tempestivo contrasto della violenza di genere e domestica.