“Il ddl Pillon va cancellato, non si salva proprio nulla di quello che contiene”. Maria Gabriella Luccioli non è solo una giurista con un curriculum di tutto rispetto. E’ stata anche una magistrata che nella sua lunga carriera ha collezionato primati. A cominciare dal primo concorso in magistratura aperto alle donne: correva l’anno 1965 e Luccioli, insieme ad altre 7 donne in Italia, ha infranto il tabù di una professione fino a quel momento riservata agli uomini. Prima donna presidente di sezione in Cassazione, nel 2013 ha corso per la  presidenza della Suprema Corte. Non la spuntò, dicono, per le sue doti di autonomia e indipendenza dalle correnti e consorterie che abitavano il Csm. Nel mezzo le tante sentenze, alcune rivoluzionarie, che hanno riscritto il diritto di famiglia. Porta la sua firma la pronuncia dell’ottobre 2007 sul caso Englaro che ha sancito il diritto all’autodeterminazione terapeutica dei malati terminali. E porta sempre la sua firma quella del 2013 che ha stabilito l’affidamento di un bambino a una coppia omosessuale. Dello stesso anno poi la pronuncia che ha sconfessato il ricorso dei tribunali alla sindrome di alienazione parentale, una malattia scientificamente non acclarata e che di fatto mette fuori gioco le donne nelle battaglie in tribunale per l’affidamento dei figli. Dopo l’addio alla toga ha raccolto nel  libro “Diario di una giudice” (2016, Forum Editrice) la sua lunga storia nella magistratura.

Dott.ssa Luccioli, cosa pensa del ddl Pillon?
Ne penso male. E’ un disegno di legge denso di criticità.

Quali?
In una prima approssimazione si può dire che è assente nell’articolato una prospettiva volta ad attribuire valore centrale alla tutela dell’interesse del minore, considerato invece in modo del tutto marginale e inadeguato. Emerge una visione adultocentrica dei problemi ed una posizione nettamente rivendicativa di un genitore sull’altro, che penalizza il partner più debole e strumentalizza i figli nel tentativo di realizzare un utopistico equilibrio.

L’approvazione di questo provvedimento che impatto avrebbe sul diritto di famiglia e sulle tutele di cui lei parla?
Mi faccia dire innanzitutto che io dubito fortemente che il ddl sarà approvato così com’è. Le reazioni degli operatori del diritto e degli osservatori sono state molto forti e le critiche molto puntuali. E tali contestazioni sono state mosse trasversalmente, da parte di orientamenti diversi. Non c’è da stupirsene, del resto, perché le soluzioni prospettate nel disegno di legge sono sbagliate e non realizzabili. C’è anche da osservare che le circa 120 audizioni calendarizzate in commissione Giustizia del Senato evidenziano una disponibilità del legislatore a rivedere l’ articolato.

Quindi secondo lei è rettificabile questo provvedimento?
No, secondo me è proprio da cancellare, non si salva nulla di quello che contiene.

Perché un giudizio così duro?
Innanzi tutto perché questo ddl solleva dubbi di incostituzionalità pesanti, con particolare riferimento  all’’ascolto del minore, che il ddl depriva del tutto della sua funzione, in violazione delle  Convenzioni internazionali che attribuiscono all’ ascolto un valore fondamentale nella individuazione del superiore interesse del minore; o con riferimento alla  obbligatorietà della mediazione, che la Convenzione di Istanbul del 2011 esclude per tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione stessa. Inoltre perché è assurda e impraticabile la previsione di tempi paritari di convivenza dei figli nell’abitazione dell’uno e dell’altro genitore, senza peraltro operare alcuna distinzione tra le esigenze dei minori, certamente diverse in relazione al carattere, alle consuetudini e all’età. E’ del tutto evidente la differenza tra i bisogni esistenziali di un lattante e quelli di un preadolescente o di un adolescente.

Quindi secondo lei è questo il punto critico della riforma?
Si, perché dalla previsione di tempi paritetici scaturisce una serie di conseguenze tutte molto discutibili. Mi riferisco all’assegno di mantenimento dei figli, che viene sostanzialmente soppresso con la previsione che ciascuno dei genitori provveda al mantenimento diretto nel periodo di permanenza della prole presso di sé.  Questa soluzione è fortemente penalizzante non solo per il  genitore più debole, ma anche per il bambino, il quale verrà costretto a due ménage  in relazione alle possibilità economiche dell’uno e dell’altro genitore. Inoltre è da notare che se uno dei  genitori non adempie ai suoi obblighi, l’altro non avrà un titolo da azionare direttamente nei suoi confronti, ma dovrà provvedere a far fronte alla totalità delle spese, salvo reclamare con apposito giudizio il rimborso della quota gravante sull’ altro. Inoltre non potrà neppure chiedere il pagamento diretto al datore di lavoro del genitore inadempiente, come la normativa vigente consente. Non parliamo poi della casa familiare.

Parliamone. Che succede con il ddl Pillon?
Sparisce. Non c’è più nessun tipo di assegnazione. Nella relazione illustrativa del ddl  questo istituto giuridico viene definito un “monstrum”, mentre nell’esperienza giudiziale, ma ce lo dice anche il buon senso, l’assegnazione della casa familiare costituisce uno strumento importante di tutela dei figli, in quanto  nel momento per loro più difficile, quello della separazione dei genitori, garantisce la loro stabilità e la conservazione del luogo degli affetti. Il prevedere che il genitore cui viene consentito di rimanere nella casa familiare di proprietà dell’ altro debba versare a quest’ultimo un indennizzo pari al canone di locazione snatura completamente la funzione dell’assegnazione.

Lei però tocca un tasto dolente: quello dei padri separati che con la disgregazione della famiglia finiscono a dormire in macchina.
Ci sono certamente situazioni dolorose di questo tipo, ma teniamo anche conto che dal rapporto della Caritas pubblicato nel 2012 risulta che i padri separati o divorziati che accedono alle mense dell’ente sono il 3,1% del totale degli utenti, mentre le madri separate o divorziate sono il 6,7 per cento. Non c’è dubbio che la separazione impoverisce entrambe le parti, obbligandole a far fronte a nuove spese e a gestire separati menage familiari. E non c’è nemmeno dubbio che il fatto di perdere la propria abitazione abbia pesanti ricadute sul fronte economico, oltre che sul piano  simbolico. Però il problema non si risolve negando ai figli di continuare a vivere nell’ ambiente che ha accompagnato la loro crescita, perché l’interesse dei minori deve rimanere prevalente.

Lei è stata l’autrice di una sentenza che ha fatto scalpore nel 2013: quella sulla presunta sindrome di alienazione parentale. Cosa pensa dell’articolo 17 del ddl Pillon, quello che sanziona con l’allontanamento i comportamenti di alienazione o manipolazione dei figli da parte di un genitore?
Il mio giudizio è negativo anche a questo riguardo, Va innanzi tutto precisato che la comunità scientifica tende ad escludere che la cosiddetta Pas sia qualificabile come malattia psichiatrica. La mancanza di certezze al riguardo ha indotto la giurisprudenza ad assumere decisioni molto prudenti sul punto. Nel testo del ddl non si fa esplicito riferimento alla sindrome di alienazione parentale, ma nella relazione illustrativa se ne parla espressamente. A fronte di atteggiamenti dei figli che rifiutano di avere rapporti con uno dei genitori il disegno di legge offre una soluzione standardizzata, prevedendo che il giudice possa adottare ordini di protezione, limitare o sospendere la responsabilità genitoriale dell’altro, persino disporre il  collocamento provvisorio dei minori in una apposita struttura specializzata, così riconducendo in via automatica quel rifiuto all’ambito perverso della alienazione parentale.

Ma quindi come si interviene se un genitore aizza il minore contro l’ex partner?
Deve essere il  giudice, con l’aiuto degli esperti, a individuare le cause del problema e a trovare le soluzioni più adeguate per il suo superamento, modulando le risposte di giustizia in relazione alla specificità delle singole situazioni. In questo provvedimento i poteri discrezionali del giudice vengono radicalmente ridimensionati. L’aver lasciato al magistrato compiti del tutto residuali esprime una forte diffidenza nei confronti della giurisdizione e l’opzione  verso previsioni rigide e imposizioni dirette a disciplinare in modo ossessivo il rapporto dei genitori con i figli.

Lei che è stata l’autrice di alcune sentenze rivoluzionarie sul tema della tutela dei singoli, soprattutto i più deboli, che giudizio darebbe oggi dello stato di salute del tema dei diritti oggi?
Dobbiamo purtroppo  riconoscere che i diritti fondamentali, una volta faticosamente conquistati, non lo sono per sempre. E’ vero piuttosto che essi vanno attentamente custoditi e difesi da iniziative improvvide, spesso  dettate da motivi  ideologici disancorati dalla realtà e indifferenti alle esigenze dei soggetti più deboli.